Smettete di studiare musica (se non avete le idee chiare)

L’idea che la musica possa (e debba) essere fatta, studiata, affrontata, amata da tutti, indistintamente, ha raggiunto oramai livelli accostabili ai romanzi di fantascienza.

Le versioni di questo pensiero sembrano coagularsi in due principali argomentazioni.

La prima vede la musica come panacea di tutti i mali: chi studia musica diventa più intelligente, una persona migliore, il cervello si attiva in percentuali miracolose alle soglie del controllo della materia e tutti diventano immancabilmente geni.
Inutile dire che è tutta fuffa: come nel mondo dell’edilizia, del management bancario, della medicina, dell’informatica, dell’ingegneria aerospaziale e persino della politica, esistono musicisti intelligenti e musicisti beoti, esistono musicisti con cui è piacevole parlare ed altri che sono emeriti imbecilli e che ci crediate o no, le percentuali di genio tendono allo zero.

La seconda non molla la presa dal principio che dovrebbero esserci più scuole “a indirizzo musicale”.
Ho sempre letto l’esistenza di questo genere di scuole come la conferma più palese che la musica non entrerà mai a far parte dei programmi ordinari e che non sarà mai affiancata allo studio della letteratura o della storia (come si possa studiare musica senza una contestualizzazione storica rimane per me un mistero) ma rimarrà relegata alla preparazione del saggio di Natale o di fine anno. Bene che vada qualche concorso di musica d’insieme.
Perché non – mi chiedo – a indirizzo fotografico, pittorico, poetico, matematico, scacchistico, chimico.
Informatico, Gesù!, con i tempi che corrono.

Sarà meglio mettere al corrente le famiglie che sono alla ricerca di informazioni più chiare: la musica, a scuola, non si impara.
Si può apprendere qualcosa sul premere qualche tasto o pizzicare qualche corda ma per poter avere un figlio musicista occorre una rarissima combinazione di disciplina, amore e propensione al rischio. Un contesto dove viene sviluppato giornalmente il valore del sacrificio e dove il fallimento non solo è contemplato ma è parte della ricetta, usato per migliorare ed imparare a rialzarsi.
Un micro-universo dietro la porta di casa nel quale si insegni, da subito, che il risultato in sé è completamente inutile se non si è imparato qualcosa nel percorso per raggiungerlo.

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